The Program: la grande bugia di Lance Armstrong

(cinemio.it)

Quando si parla di ciclismo e soprattutto di Tour de France non si può non citare Lance Armstrong, capace di vincere per sette volte consecutive, dal 1999 al 2005, proprio la più importante corsa a tappe francese. Peccato, però, che questi successi gli siano stati successivamente revocati dall'Unione Ciclista Internazionale per aver fatto uso sistematico di sostanze dopanti, insieme al suo team, la US Postal, durante tutto l'arco di quei Tour. 
 
Proprio di questo tratta il il film di cui voglio parlarvi oggi e in cui mi sono recentemente imbattuto. Il suo titolo è The Program, pellicola del 2015, diretta da Stephen Frears (due volte premio Oscar alla miglior regia per Rischiose abitudini e The Queen), ispirata all'omonimo libro di David Walsh. Un racconto interessante e ben curato che , prendendo spunto appunto dalle vicende narrate in Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong, questo il titolo originale in lingua inglese del testo del giornalista irlandese, spiega finemente quali stratagemmi usò il ciclista americano per vincere durante la seconda parte della sua carriera. 

Nel film si contrappongono due figure centrali: da un parte, appunto, Armstrong, interpretato da Ben Foster, ossessionato dalla vittoria e dal successo, tanto da contattare direttamente il medico Michele Ferrari, famoso per i suoi trattamenti a base di doping, per farsi seguire personalmente ed "entrare nel giro" delle sostanze illegali; dall'altra il giornalista Walsh (Chris O'Dowd), ossessionato, invece, dalle improvvise vittorie e dai tanti successi del texano, che aveva avuto modo di incontrare fin dall'inizio della sua carriera e che ben conosceva. Sarà, infatti, proprio reporter irlandese il principale artefice della scoperta degli imbrogli del corridore americano. 

La vicenda di Armstrong, raccontata nel film, è nota a tutti agli amanti del ciclismo e non solo. La maggior parte di voi saprà, infatti, che dopo una prima parte di carriera in cui Lance aveva ottenuto alcuni importanti successi, come la medaglia d'oro nella prova in linea ai campionati del mondo su strada di Oslo nel 1993 e le "classiche" Freccia Vallone e Clásica San Sebastián (le uniche grandi affermazioni che conserva ancora oggi, nonostante anche questi siano stati messi in dubbio da lui stesso sempre a causa del doping), si ritrovò colpito, nell'ottobre 1996, da un tumore ai testicoli che lo mise a durissima prova. Lui, però, non si scoraggiò e riuscì a sconfiggerlo con coraggio e determinazione, diventando anche un simbolo della lotta a questa brutta malattia, che sostenne con numerose iniziative come per esempio la Lance Armstrong Foundation. 

Tornò alle corse nel 1998 e si convinse di poter fare la storia del ciclismo, ponendosi come obbiettivo la vittoria del Tour de France. Decise, allora, di contattare Johan Bruyneel (Denis Ménochet), suo ex compagno di squadra, che diventerà il direttore sportivo del team di Armstrong, rinominata US Postal. Per poter diventare il numero uno, però, si rese conto che doveva anche "giocare sporco", cosi decise di iniziare anche una collaborazione con il sopracitato medico sportivo, il dottor Ferrari (Guillaume Canet), con il quale sviluppò un vero e proprio "programma" di doping estremamente efficace. Questo si concentrava, in pratica, sull'uso sistematico di sostanze dopanti come EPO, testosterone e corticosteroidi, oltre che su trasfusioni di sangue "non infetto", prima dell'assunzione delle sostanze proibite, che venivano fornite ai controlli antidoping per non destare nessun sospetto. "Programma" che seguivano tutti i componenti del team, compreso Floyd Landis (Jesse Plemons), che sarà uno dei principali accusatori dell'ex compagno di squadra, dopo essere scoperto per primo dall'antidoping. 


Ecco, allora, che, con il grande aiuto del "trattamento dopante", iniziarono ad arrivare le prime importanti vittorie e di conseguenza il primo trionfo al Tour de France nel 1999, in cui Armstrong dominò letteralmente sui suoi avversari, distaccando di più di sette minuti il secondo in classifica Alex Zulle e di più di dieci minuti il terzo, tale Fernando Escartin. A questo trionfo ne seguirono altri, di cui ben sei consecutivi alla Grande Boucle, nei quali il corridore americano riuscì a vincere con facilità disarmante. Nessuno, però, si azzardò a mettere in discussione la veridicità di queste vittorie, anche perché chi lo faceva veniva letteralmente "isolato" dal resto dei corridori, che si comportarono in modo omertoso, non osando mai andare contro ad Armstrong e compagni. Questo accadeva principalmente per paura di ripercussioni sulla loro carriera ciclistica, una cosa che vien ben descritta nel corso della pellicola. Uno dei pochi a ribellarsi fu Filippo Simeoni, che, dopo aver fatto dichiarazioni "scomode" sul dottor Ferrari, subì un vero e proprio comportamento definito "mafioso" dalla maggior parte degli addetti ai lavori da parte di Armstrong e compagni, che gli impedirono addirittura di competere per una vittoria di tappa al Tour del 2004. 

Nel frattempo, come ben analizza il film, si sviluppò sempre di più, nel ciclista texano, la consapevolezza di stare sbagliando, facendo qualcosa di "sporco", di illegale, ma il suo ego e la sua fame di successi erano così forti da portarlo a convivere in maniera simbiotica con la sua grande bugia, giustificando ogni singola azione sbagliata fatta per arrivare alla vittoria. Attorno a lui, infatti, si sviluppò una vera e propria venerazione che lo dipingeva come l'eroe che aveva sconfitto il cancro. Poco importava se le sue vittorie erano ottenute con l'uso di sostanze dopanti, ormai la natura era stata sfidata: il suo esile fisico, inizialmente inadatto al ciclismo, era diventato "adatto" grazie a quegli "elisir miracolosi". Ormai "vincere era nel suo sangue", come recitava lo slogan di una locandina in lingua italiana dello stesso film. Mai frase fu più azzeccata, perché, a questo punto, grazie a quelle sostanze, Lance era inarrestabile. In quel "programma" ci era dentro fino al midollo e non poteva più uscirne, doveva continuare a mentire e difendere con le unghie e con i denti, andando contro tutto e tutti, le sue affermazioni e i suoi gregari, ma anche i soldi, la fama e il successo conquistati con "tanta fatica", almeno secondo il suo punto di vista. 

Il solo Walsh, che fin da principio pensava che ci fosse qualcosa di sospetto nei successi di Armstrong, ebbe il coraggio di mettersi contro al grande campione e cominciò, a poco a poco, ad indagare sulle sue vittorie. Alla fine, dopo aver pubblicato prima, nel 1999, un articolo sul quotidiano francese L'Equipe e poi, nel 2004, il libro L.A. Confidential, i segreti di Lance Armstrong, in cui accusava il texano di fare uso spasmodico di sostanze dopanti per vincere, riuscì, finalmente, a scoperchiare il "vaso di Pandora". Scoprì, infatti, la farsa messa in scena da Lance e la sua squadra, scatenando un effetto domino, che provocò diverse accuse e portò a clamorose rivelazioni nei confronti del "sistema" che era stato creato, anche da parte di alcuni ex compagni dello statunitense, come Tyler Hamilton. Nonostante ciò, però, il ciclista americano continuava a dichiarare a spada tratta la sua estraneità ai fatti, con continue querele, minacce ed interviste riluttanti, facendo leva sul "così fanno tutti". Consapevole della sua grandezza e del suo essere intoccabile, convinto di non poter essere scoperto, anche dopo il suo primo ritiro, avvenuto nel 2005, l'atleta a stelle e strisce tornò a gareggiare nel 2008 fino al 2011. Dimostrando, anche in questi quattro anni, di essere ancora in formissima, naturalmente sempre grazie all'uso di sostanze dopanti.

Quando, però, il 24 agosto 2012, la United States Anti-Doping Agency ufficializzò la decisione di squalificare il ciclista texano a vita, togliendogli tutti i risultati ottenuti dal 1998 in poi, a causa dell'uso sistematico di sostanze illegali, la messinscena crollò in modo definitivo e Armstrong dovette per forza di cose arrendersi. All'agenzia antidoping statunitense si sono, successivamente, uniformate l'Unione Ciclistica Internazionale (UCI) e il Comitato Olimpico Internazionale (CIO), che gli tolsero tutti i risultati ottenuti, compresa la medaglia di Bronzo ottenuta a Sydney 2000 nella prova a cronometro. Il 17 gennaio 2013, infine, durante un'intervista con la giornalista Oprah Winfrey, l'ormai ex ciclista ammise, per la prima volta, di aver fatto uso di sostanze dopanti durante la sua intera carriera. 

Tutto questo viene rappresentato e raccontato nel film di Frears con dovizia di particolari e grande precisione, sottolineando l'immenso potere mediatico e sociale che veniva attribuito al corridore nativo di Plano. Questo era derivato, non solo, dalla sua malattia, che aveva sconfitto con grande forza di volontà, diventando un vero mito, ma anche dagli sponsor, dai tifosi e dal silenzio degli altri corridori e dell'UCI, che nel 2010 ricevette, tra l'altro, anche una cospicua donazione da parte di Armstrong. 

Un film interessante e ben raccontato che riesce a tenere incollati allo schermo dal primo all'ultimo minuto, nonostante la storia di Armstrong sia risaputa ai più. Questo grazie alla sapiente conduzione del regista inglese. Per questo motivo lo consiglio a tutti gli appassionati di ciclismo e di sport in generale, soprattutto perché lascia due importanti insegnamenti, che possono sembrare banali, ma troppo spesso vengono sottovalutati: nello sport, così come nella vita, bisogna sempre essere onesti e rispettare le regole, oltre che gli altri, perché prima o poi tutte le bugie e le falsità vengono a galla.

Bibliografia e sitografia:

- Wikipedia.org
- The Program di David Walsh, Milano, Sperling & Kupfer, 2015

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