"A un vincitore nel pallone": Giacomo Leopardi e lo sport
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Quando si pensa a Giacomo Leopardi vengono subito in mente alcuni capolavori della letteratura italiana, come i componimenti A Silvia, Il passero solitario o L'infinito, che rappresentano appieno l'anima inquieta e sconsolata dello scrittore di Recanati.
Non si pensa, invece, molto spesso, ad un'altra composizione, altrettanto famosa, in cui il poeta marchigiano parla addirittura di sport. Si tratta di uno dei primi collegamenti tra la letteratura e l'attività sportiva e il suo titolo è A un vincitore nel pallone, canzone contenuta nei Canti e nella quale scopriamo un Leopardi appassionato del gioco del pallone col bracciale. Uno sport molto in voga nel XIX secolo, che con il passare del tempo ha però perso seguito, pur conservando un discreto numero di appassionati, a causa dell'avvento di "nuovi" sport, come il calcio o la pallacanestro. A partire dagli anni '90, però, è tornato in auge, tanto che, ancora oggi, viene organizzato anche un campionato italiano di questa specialità.
Questo sport consiste nel colpire un pallone, realizzato solitamente in pelle di manzo, con un bracciale di legno dotato di sette cerchi contornati da moltissime punte. Solitamente le compagini sono composte da tre o quattro giocatori (dipende se il campo è dotato di un muro d'appoggio oppure no) che si scambiano la palla a suon di battute, cercando di segnare più punti dell'avversario. Il punteggio viene calcolato secondo lo schema 15-30-40-50 e quando una squadra si aggiudica il cinquantesimo punto vince il gioco. Quattro giochi formano un trampolino. L'intero incontro, invece, è composto da tre trampolini, per un totale di 12 giochi. Chi vince il maggior numero di giochi si aggiudica la partita e la vittoria finale.
Nel novembre del 1821 il poeta recanatese si recò allo Sferisterio di Macerata per assistere proprio ad una partita dello sport sopracitato. Quel giorno venne, per la prima volta, a contatto con Carlo Didimi, un campionissimo di questa disciplina sportiva, il quale era anche coetaneo del poeta. Proprio a Didimi si riferisce lo scrittore nel corso della sua canzone in cinque strofe che prende ispirazione dalla partita a cui Leopardi aveva assistito e che gli aveva suscitato emozioni contrastanti. A riconosce la grandezza sportiva del pallonista di Treia è lo stesso scrittore marchigiano, che lo acclama come uno dei campioni più amati dell'epoca, rivolgendosi direttamente a lui nelle strofe iniziali del componimento (pur senza mai citarlo direttamente), elogiandolo per il suo vigore e la sua forza fisica: caratteristiche di cui Leopardi era sprovvisto, vista la grave patologia che lo affliggeva fin da piccolo. Queste caratteristiche suscitarono un po' di invidia nel poeta, che però, era dotato di un'intelligenza fuori dall'ordinario e di una vena poetica incredibile che gli permisero di comporre questa splendida canzone appena fece ritorno nella sua Recanati.
Successivamente nella lirica si fa riferimento alle gesta degli antichi greci, soprattutto alla battaglia di Maratona, quando gli ateniesi e i plateesi riuscirono a sconfiggere i persiani ponendo fine alla Prima guerra persiana. Una trasfigurazione epica di una partita di palla al bracciale paragonata all'impresa eroica dell'esercito greco che ha cambiato la storia. Questa epicità Leopardi la intravede negli atleti che praticano questa attività sportiva, soprattutto in Didimi (equiparato per le sue gesta agli eroi greci), ma non la percepisce negli altri uomini del suo tempo. Per questo, attraverso queste rime, vuole spronarli a compiere delle azioni nobili, smuoverli dalla pigrizia dell'epoca e stimolare le loro coscienze, per non farli diventare degli uomini "vili". Bisogna, infatti, secondo lo scrittore recanatese, ritrovare i valori e gli ideali di un tempo per non sfociare nella decadenza più assoluta, che già sta iniziando a serpeggiare tra i suoi coetanei del tempo. Una decadenza che il poeta non condivide, reputando gli "antichi" maggiormente superiori a coloro che affollano la sua epoca, i moderni, che sono inferiori non solo fisicamente ma anche culturalmente e moralmente. Un pensiero che Lepardi ha sempre sostenuto e che, proprio attraverso queste rime, vorrebbe far arrivare agli uomini, che dovrebbero comportarsi come il pallonista Didimi e pensare di meno allo sfarzo e alla supebia.
Una raffigurazione di Didimi e le prime strofe della canzone di Leopardi. |
Nel finale della composizione possiamo percepire anche la visione leopardiana della vita, che va intesa come un gioco, quale può essere proprio quello del pallone col bracciale. Un'esistenza che, quindi, va "giocata" fino in fondo, senza stare a guardare, ma agendo d'impulso, a volte anche andando incontro al pericolo. Non bisogna, quindi, risparmiarsi, come facevano gli eroi antichi, per non cadere nell'ozio e nella noia, sprecando così la la propria vita. Ecco perché, Leopardi sembra quasi spronare il pallonista, di cui torna a parlare nelle strofe conclusive, quasi a voler chiudere il cerchio. Lo sprona a continuare a giocare con forza ed audacia, facendo ancora di più, in modo tale da non commettere il suo stesso errore ed accorgersi, troppo tardi, di come bisogna veramente vivere.
Rivolgendosi allo sportivo, lo scrittore si rivolge anche a coloro che lo osannavano e lo sostenevano, capendo quanto l'attività sportiva fosse già, a quel tempo, importante per le persone, soprattutto dal lato comunicativo. Un messaggio forte e chiaro che deve arrivare a tutti, non solo all'atleta, non troppo distante dalla nostra realtà attuale nella quale gli sportivi sono solitamente visti come degli esempi da seguire. Essi, infatti, incarnano, al giorno d'oggi, i valori del sacrificio, della dedizione e del non arrendersi mai, ma anche della lealtà, dell'onestà e della correttezza, che speso però, vengono a mancare in determinate occasioni. Ci vorrebbero, difatti, più atleti come Didimi, che si impegnò anche politicamente, seguendo i "consigli" di Leopardi, diventando un attivista mazziniano e sostenendo l'attività patriottica del tempo, che spingeva verso il Risorgimento. Al contrario di alcuni sportivi del nostro tempo, diventati "prime donne", che si atteggiano, mostrando sfarzo e lusso e che si comportano come se tutto fosse loro dovuto. E forse anche in questo il caro Giacomo aveva già anticipato i tempi, come se già sapesse quanto gli atleti dei giorni nostri potessero influenzare e orientare le masse.
Qui di seguito vi lascio il componimento integrale che potete leggere nella sua completezza per capirne a fondo il contenuto.
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s’alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l’echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Non del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l’ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D’emula brama il punse. E nell’Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L’alto sen dell’Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l’opre de’ mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l’insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch’alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l’aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l’atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s’onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne’ perigli avvolta,
Se stessa obblia, né delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
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